Guicciardini e la Riforma. A margine di una mostra

In occasione del Cinquecentenario della Riforma protestante, a inizio maggio, è stata inaugurata a Firenze una mostra alla Biblioteca nazionale centrale in cui sono statepresentate alcune centinaia di scritti dell’epoca, provenienti dal Fondo Piero Guicciardini. Il conte Piero Guicciardini (1808-1886) raccolse, durante la sua vita, circa diecimila edizioni originali, di cui oltre duemila scritti legati alla Riforma protestante donati poi al Comune di Firenze. Il titolo della mostra è proprio: “Una Riforma religiosa per gli italiani, le edizioni del XVI secolo del Fondo Piero Guicciardini”. Si tratta di un’ampia scelta di testi dei protagonisti italiani ed europei della Riforma che merita attenzione non solo da parte del mondo degli studiosi.
Tutti riconoscono il carattere unico di una biblioteca costruita secondo un piano prestabilito, ma è possibile cogliere l’idea complessiva di questo piano? Una cosa è sottolineare la dimensione del collezionista e del bibliofilo, un’altra cogliere eventuali ragioni di fondo. La sua passione per i libri è nota, ma quella passione non era forse l’eco di una passione ancora più profonda? Pensare che egli volesse preservare il materiale mettendolo al riparo da eventuali sequestri e roghi non sembra sufficiente.  
Spesso si sottolinea l’italianità del Fondo ed è molto vero. L’italianità rischia però d’essere solo un elemento di carattere romantico. Un motivo quasi troppo provinciale per essere compatibile con la statura del personaggio. Viene allora da chiedersi se nel tentativo di riallacciarsi al mondo riformato non ci fosse qualche precisa intenzione. Perché raccogliere i testi caratteristici di quel mondo? Cosa voleva mostrare?
Voleva forse mostrare che la Riforma religiosa del XVI secolo aveva avuto luogo anche in Italia e che solo l’attività inquisitoriale era riuscita a stroncarla? Mostrare che, come le tante pubblicazioni di Bibbie in quel tempo attestavano, c’era stato un reale interesse per una trasformazione spirituale e culturale che però non ebbe luogo così come avvenne in altri paesi? Mostrare che anche in Italia c’era stata una sorta di Riforma? Ma perché non si limitò solo a sottolineare il valore della Bibbia e a documentare l’esistenza di una cerchia di riformatori italiani? E perché raccolse anche tanti testi teologici dei riformatori d’oltralpe? Voleva forse costruire su una tradizione a sostegno del risveglio spirituale del diciottesimo secolo? Si tratta forse d’interrogativi non peregrini.
E’ stato giustamente sostenuto che un Risveglio senza un autentico legame con la Riforma è privo degli elementi decisivi della fisionomia evangelica. Si può sopravvivere, ma la sopravvivenza non è l’ambizione cristiana. L’ambizione cristiana è quella di fare prigioniero ogni pensiero per condurlo all’obbedienza (2 Cor 10,5)? C’è caso allora che Guicciardini si rendesse conto che il risveglio ottocentesco avrebbe avuto bisogno, per sopravvivere alle intemperie del tempo, di un vero e proprio collegamento col mondo della Riforma del XVI secolo. Nessun vero risveglio può, infatti, prescindere dalla confessione di Dio quale Signore di tutta la storia.