Sfide per le chiese confessanti in tempi di emergenza (II)
Sul ruolo dello stato

Oltre a spronare una riflessione sulle dinamiche interne alla vita delle chiese confessanti, la pandemia ha anche comportato una serie di misure prese dal Governo atte a contenere i rischi del contagio che hanno drasticamente impattato l’ordinario svolgimento delle attività ecclesiastiche. Questi provvedimenti hanno toccato molti aspetti della vita sociale, tra cui anche il divieto di assembramenti e, all’interno di questa categoria, di ogni “cerimonia religiosa” organizzata nei locali di culto. Mentre in un primo tempo il Governo si era limitato a imporre misure di sanificazione dei locali e di distanziamento tra le persone, l’aumento del pericolo percepito ha portato a chiudere d’imperio ogni funzione religiosa. Tutto è accaduto molto velocemente, sulla scia inarrestabile della diffusione del coronavirus. Ciò ha portato tutte le chiese ad adeguarsi, senza avere il tempo o la forza o la volontà di interrogarsi su questa serie di atti intrusivi nella vita delle chiese da parte dello Stato.

L’art. 24 della Confessione di fede battista del 1689 tratta del magistrato civile (per estensione, lo Stato) riconoscendo che Dio ha “ordinato” i magistrati civili per il “bene pubblico”. Più avanti, sempre nello stesso articolo viene richiamato il testo di 1 Timoteo 2,1-2 dove si impegna la chiesa a pregare per le autorità per condurre “una vita tranquilla e quieta”. Può il contrasto al virus essere considerato un compito del magistrato? Sicuramente rientra nel “bene pubblico” prevenire, contenere e curare la pandemia, anche con provvedimenti drastici. Inoltre, il rischio di un contagio di massa (e quindi con la prospettiva di gravi perdite di vite umane) va a detrimento della vita tranquilla e quieta che è responsabilità del magistrato promuovere.

Dunque, esiste un profilo di legittimità d’intervento da parte dello Stato in caso di pandemia in arrivo o certificata. E’ il “bene pubblico” in gioco. Le chiese devono essere grate per il servizio svolto dallo Stato, pregare per le autorità nello svolgimento del loro compito e collaborare nella misura del possibile. Detto questo, ogni volta che lo Stato interferisce nella vita delle chiese e delle comunità di fede, questa azione dovrebbe essere doppiamente vagliata e affrontata con molta cautela. Si tocca infatti un rapporto molto delicato che sia sul versante ideologico che nell’esperienza storica è stato oggetto di gravi distorsioni.

Nel corso della storia della chiesa evangelica, soprattutto in situazioni in cui la chiesa è stata minoranza o soggetta a forme di discriminazione/persecuzione, lo Stato è sovente intervenuto per fermare le attività di culto in base ad una ragione di difesa della salute, della razza, degli interessi nazionali, ecc, come nel caso dello Stato italiano che, nel ventennio fascista, ha preso provvedimenti contro gli evangelici evocando un argomento di sanità pubblica. In questo senso, merita di essere considerato quanto affermato in una riflessione della Chiesa evangelica di Padova “Il nostro culto a Dio e il Covid-19” (8/3/2020) quando si dice:

Prendiamo atto dell’impegno attuale dello stato nel tutelare la salute pubblica attraverso misure appropriate anche se in passato ha preteso discriminare alcune forme di fede evangelica pretendendo che esse fossero “nocive dell’integrità fisica e psichica della razza”. Poiché sappiamo che la salute è anche legata alla dimensione spirituale della persona, rimaniamo vigili perché a tutt’oggi manca una legislazione in merito alla libertà religiosa.

In Italia esiste la Costituzione repubblicana che riconosce il diritto della libertà religiosa, ma discrimina le confessioni religiose in raggruppamenti di serie A (la chiesa cattolica), serie B (le chiese con intesa), serie C (tutti gli altri). Tale libertà è evocata formalmente ma di fatto gerarchizzata nel dettato costituzionale e compressa nella prassi per le minoranze. Inoltre, l’ordinamento italiano è ancora appestato da residui di legislazione fascista che parlano di “culti ammessi” e intriso da una cultura istituzionale ancora troppo poco sensibile al tema della libertà religiosa. Il risultato è che l’esercizio della libertà religiosa è ancora fortemente segnato da condizioni restrittive per le minoranze. E’ legittimo quindi, da parte di chiese sovente vessate dalle discriminazioni subite dallo Stato, porre sempre l’interrogativo sui “limiti” e sui “confini” di ogni intervento dello Stato che tocca la vita delle chiese.

Nel caso della pandemia del coronavirus, bisogna riconoscere che lo Stato italiano ha vietato ogni “cerimonia religiosa” erga omnes, senza distinzione ed includendo anche quelle della chiesa cattolica romana. Così facendo, ha mostrato di non fare discriminazioni. Tuttavia, anche nei confronti di un provvedimento generale a compressione delle attività religiose pubbliche, ogni intervento dello Stato va sottoposto a vaglio critico. Per quanto giustificato e legittimo sia stato il provvedimento restrittivo dello Stato, la separazione tra Stato e chiesa e la non ingerenza del primo nei confronti della seconda va sempre presidiata da parte di chiese evangeliche vigili e attente al bene di tutti.

Leonardo De Chirico
17/3/2020